Periferie al centro

Periferie al centro. Non è solo un titolo evocativo per esprimere l’auspicio che le periferie tornino ad essere al centro dell’interesse e dell’attenzione politica. E’ una fotografia della straordinaria situazione di una città come Napoli, in cui le periferie sono davvero “al centro”.

Lo sono perché esistono aree immediatamente a ridosso del centro storico che possono essere considerate “periferiche” sul piano sociale ed economico, in quanto coinvolte in processi di degrado che determinano la presenza di evidenti aree di disagio: Sanità, Quartieri Spagnoli, Forcella, Poggioreale. Sono territori ricchi di storia e di beni culturali, che non presentano i profili di nuova urbanizzazione delle periferie “esterne”, ma ne condividono molte delle fragilità e delle debolezze, a partire dalla presenza di una criminalità organizzata profondamente radicata.

Lo sono perché persino nei “quartieri bene” della città, dove la gentrificazione ha prodotto effetti significativi, continuano a resistere sacche di disagio sociale. Si pensi ai vicoli della Torretta a Chiaia, al Casale a Posillipo o al Pallonetto a Santa Lucia, vere e proprie sacche urbane dove sopravvivono condizioni insospettabili di povertà e di devianza. Qualcuno li ha definiti “luoghi dell’eccezione” perché rappresentano una contraddizione clamorosa all’eleganza delle strade limitrofe che accolgono le case e i negozi della borghesia cittadina.

Ma le periferie sono “al centro” anche perché persino Scampia può essere definita il “centro della Città Metropolitana”, considerando la collocazione rispetto alla “città estesa” che oggi arriva a includere numerosi comuni dell’hinterland nello sviluppo di un profilo urbanistico dove è difficile identificare punti di discontinuità.

Quindi, prendersi cura delle periferie significa “curare Napoli” nel suo complesso lavorando per un’integrazione della città a più livelli che superi il modello “centripeto”, dove le periferie si limitano a svolgere funzione di grandi dormitori e di luoghi di socializzazione deviante. A tal fine, è indispensabile localizzare nelle periferie servizi, attività destinate all’intrattenimento, spazi ludici, luoghi educativi, poli funzionali in grado finalmente di attirare persone provenienti “da fuori”. Solo in questo modo quei territori potranno diventare spazi vitali e accoglienti, a condizione, però, che si curi con attenzione l’integrazione delle nuove realtà con il territorio, per evitare il classico fenomeno della “cattedrale nel deserto” o si ripropongano modelli poco efficaci come quello del Centro Direzionale, che si erge come isola algida e distaccata nel mare confuso dell’edilizia popolare di Poggioreale.

Esistono esperienze che possono rappresentare punti di riferimento, come il polo tecnologico di San Giovanni a Teduccio, sorto grazie alla collaborazione dell’Università di Napoli “Federico II” e alcune grandi multinazionali (Apple, Cisco, Deloitte, ecc.), che peraltro rappresenta un esempio di riqualificazione di area industriale dismessa. In una città fortemente penalizzata dalla fuga di cervelli, colpisce che uno dei pochi centri formativi in grado di attrarre studenti dall’estero si localizzi proprio in un territorio marginale e decentrato.

E’ un progetto molto interessante, che potrebbe trovare un seguito con l’avvio della sede della Facoltà di Medicina e Chirurgia a Scampia, troppo a lungo attesa ma finalmente in dirittura d’arrivo, che potrebbe costituire un momento di svolta nella storia di un quartiere, tristemente identificato con l’immagine deteriore e violenta di Gomorra.

Occorre lavorare in fretta, attribuendo al problema la priorità che merita. In tal senso, è emblematica la lentezza con cui si sta portando avanti il Piano Periferie varato dal Governo Renzi nel 2016, ma che è stato oggetto di continui rinvii e che fino ad oggi ha trovato solo parziale attuazione.

Le nostre periferie non possono più attendere. Ogni giorno che passa nuovi giovani vengono trascinati in nuove esperienze devianti e si avviano su strade senza ritorno. Bisogna agire subito e bisogna farlo andando oltre la doverosa attenzione alle infrastrutture e alla dimensione urbanistica. Come è stato giustamente sottolineato, prima di essere “città di pietra”, le nostre sono “città di carne” fatte di persone e comunità, che chiedono di essere ascoltate e coinvolte, stanche di essere ridotte al ruolo di spettatore passivo di fronte a scelte che producono impatti devastanti sulla loro qualità della vita. La rigenerazione di un territorio non può essere progettata in uno studio di architetti, ma deve nascere da quel territorio e deve riflettere le aspettative e i sogni di chi ci vive.

 

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